Fin da piccoli siamo stati abituati a concepire la competitività come un fattore positivo. A scuola, nello sport e nei vari dispositivi per l’educazione dei giovani, gli aspetti performativi vengono sempre messi in primo piano. Pare pleonastico ricordare come la società dell’opulenza sia fondata su principi dell’individualità che spingano ad un’antropogenesi basata sul trovarsi gomito a gomito in escalation perpetue. homo competitor
Uno degli assunti fondanti della “etica del competere” consiste nella mitologia del miglioramento, secondo cui, il trovarsi sotto pressione in una situazione di continuo confronto-scontro col proprio rivale, porterebbe a rinforzare l’impulso, a migliorarsi. Seguendo questa visione la storia umana del progresso sociale e tecnologico sarebbe imputabile ai meriti di una sana situazione di competitività millenaria ed incarnata in modo endogeno nell’essenza dell’umano. Considerazione che tradotta nel linguaggio economico fa dell’altro da sé o un partner nella competizione o un “competitor”.
Una “microstoria” del pensiero competitivo
Le radici di questo pregiudizio storico sono state lungamente corroborate dall’apporto di alcuni dei più illustri pensatori che si sono susseguiti negli ultimi secoli e delle interpretazioni estremizzate, talvolta distorte e unilateralizzate, che ne sono state fatte dalle persone nelle varie epoche. Basti pensare alla spregiudicatezza machiavellica, che viene implicitamente concepita come una risorsa di chi è in grado di muoversi nel mondo dalla modernità ad oggi.
Un esempio simile lo troviamo nell’uso del termine cinismo che oggi non riveste più il significato di una dottrina filosofica volta ad appropriarsi di un modo salvifico per rapportarsi col reale, ma viene interpretato come atteggiamento di chi nella propria determinazione non si piega di fronte a scrupoli morali, gettando, in questa perseveranza negli intenti, una luce del tutto positiva sul significato del termine. Un altro esempio lo si trova nel più recente Hobbes e nella cristallizzate formule del “bellum omnium contra omnes”, o quella di plurima attribuzione “homo homini lupus”, che postulerebbero un presunto stato di natura in cui l’essenza dell’uomo appaia primariamente egoista e conduca all’essere l’uno contro l’altro: in competizione appunto.
Questa visione viene ulteriormente rafforzata con gli apporti al sapere di Darwin e dalla corruzione del darwinismo in darwinismo sociale (che non possiede nessun presupposto di scientificità a differenza del darwinismo), secondo cui il processo evolutivo sia avvenuto per selezione e in particolare secondo la selezione intraspecifica (interna alla stessa specie) rinforzando la convinzione ingenua del fatto che l’individuo si trovi in uno stato di originario egoismo che comporti la lotta con l’altro e l’eliminazione del meno adatto, e poi che questa lotta mitigata nella forma evoluta di competizione, diventi il motore dialettico che conduce al migliorarsi dell’umanità.
Siamo nati competitors?
In realtà gli studi degli ultimi decenni, con il progredire delle ricerche in ambito evolutivo a partite da Darwin, con gli sviluppi dell’etologia, della paleoantropologia, delle neuroscienze e in generale delle scienze cognitive, si è andata delineando con prove più certe che l’origine della natura umana sia di tutt’altra specie di quella pensata dalla “etica del competitor”.
In un illuminante testo dal titolo “Unicamente umano” di recente pubblicazione (2014) dello psicologo statunitense Michael Tommasello, si dimostra con abbondanza di osservazione e di studi sperimentali che la differenza fondamentale che distingue gli umani già in tenera età (le osservazioni sono state svolte su bambini dai 12 mesi fino ai 3 anni d’età) dai nostri antenati comuni più vicini, le grandi antropomorfe (scimpanzè, gorilla, orango, bonobo) consiste nella spiccata ed innata propensione alla collaborazione e alla condivisione che è una peculiarità del tutto umana. Fin da piccoli gli umani ad esempio preferiscono nutrirsi di meno ma insieme, mentre le grandi antropomorfe prediligono cibarsi senza condividere.
Anche queste scimmie collaborano nella ricerca di cibo ma in realtà diventano molto egoiste nella spartizione e nella condivisione, mentre i piccoli umani sono presto disposti al dividere e all’attendersi che avvenga una distribuzione tra gli altri soggetti se si trovano in gruppo. Anche rispetto al fornire informazioni all’altro, le scimmie antropomorfe sono in grado di comunicare informazioni al partner se necessarie ai fini di entrambi, ma non sono in grado di fornire all’altro indicazioni che potrebbero portare vantaggio al proprio partner ma non a sé, né sono in grado di comprendere questo “registro di comunicazione”.
La differenza rilevante tra noi e queste scimmie sembra essere che le grandi antropomorfe vivano in una condizione fortemente competitiva fondata su un’autopercezione dell’IO-TU, mentre l’umano fin da piccolo abbia una concezione cooperativa e distributiva che presuppone una base fondamentale del “NOI”.
Bisogna cambiare mitologia
Questi dati stridono con le mitologie della competizione che continuano ad alimentare l’immaginario umano nei dispositivi di formazione (scuole, università, formazione al lavoro, centri di ricerca ecc), e nei processi di produzione economica e sociale. Sembra quasi che l’uomo si svilisca, autopercependosi nella propria essenza come una scimmia, ma in fondo vivendo come umano. Si potrebbe anche ipotizzare che da questa contraddizione abbiano origine tutte le forme di malessere in ambito sociale, lavorativo e formativo (si pensi per esempio alla sindrome da burn-out, agli abbandoni scolastici, alle ansie di prestazione).
Siamo per natura predisposti a collaborare a condividere e a distribuire ma ci troviamo scissi nell’obbligo di percepirci come soggettività destinate a lottare l’uno contro l’altro per prevaricare. Pare però che i tempi della conoscenza siano maturi per fornire un nuovo apparato mitologico più sano che ci consenta di vivere come umani nella veste di umani e non di scimmie.
PIE
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