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Nel 1998, Stati Uniti e UE avevano siglato un accordo (detto “Safe Harbor” ossia “approdo sicuro”) che ha sempre consentito alle aziende statunitensi di trasferire sui propri server enormi quantità di dati personali (chiamati «Big Data») appartenenti a cittadini europei, dando per scontato che fosse sufficiente una sorta di “autocertificazione” a garantire il diritto alla privacy dei cittadini europei.
Per molti anni le cose sono andate avanti così, poi è arrivato Edward Snowden, l’ex consulente informatico della CIA che nel 2013 ha denunciato i governi statunitense e britannico: secondo le sue rivelazioni questi sarebbero responsabili di aver allestito veri e propri programmi di sorveglianza di massa sulle comunicazioni elettroniche tramite l’NSA (National Security Agency), avvalendosi dell’aiuto di colossi quali Facebook, Google, Microsoft e Apple.
Max Schrems (Via Wikimedia)
Sull’onda di tale circostanza si è infine imposta la figura di Max Schrems, un avvocato austriaco anni col pallino della privacy che per anni ha contestato violazioni della legge sulla privacy europea da parte delle aziende d’oltreoceano. Sempre nel 2013 Schrems ha presentato un’azione legale contro Facebook Irlanda (dove il social ha stabilito la propria sede europea): di fronte alle “spallucce” del giudice irlandese ha portato il caso davanti alla Corte di Giustizia Europea, la quale – in ultimo – gli ha dato ragione.
Nell’ottobre del 2015, dunque, con una decisione storica la C.G.U.E. (che ha la responsabilità di garantire l’osservanza del diritto europeo) ha stabilito che il “Safe Harbor” non basta più, e che le aziende americane non possono essere considerate “adeguatamente attente alla privacy dei cittadini europei” in modo automatico.
I giganti detentori dei cosiddetti “Big Data” dovranno dunque, d’ora in poi, seguire regole più restrittive (stabilite dai singoli stati membri).
SENEX
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